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(di Laura Valentini)
FILIPPO BONI CON OLEG MANDIĆ, 'MI CHIAMO OLEG. SONO SOPRAVVISSUTO AD AUSCHWITZ' (NEWTON COMPTON EDITORI, PP 288, 12,90 EURO).
Una storia tragicamente vera, quella dell'ultimo prigioniero, un bambino, a uscire vivo da Auschwitz, raccontata tra passato e presente sul filo del giallo. E' la vicenda umana al centro di 'Mi chiamo Oleg. Sono sopravvissuto ad Auschwitz' che lo scrittore e giornalista Filippo Boni ha scritto con Oleg Mandić, il protagonista di questo memoir drammatico che si snoda lungo 80 anni: dalla nascita di Oleg in Istria fino alla cattura avvenuta nel 1944 quando era undicenne, condotto al campo di sterminio con la mamma e la nonna come prigionieri politici. Suo nonno e suo papà erano passati in clandestinità, con i partigiani vicini a Tito, e l'internamento della famiglia restata a casa fu né più né meno che una ritorsione dei nazisti.
Oleg sperimenta le atrocità del lager, la fame, la fatica, l'immensa solitudine che riesce a scalfire solo la presenza del suo unico amico, un altro bambino, Tolja. Oleg lo perde di vista fino a che lo ritrova morente nel letto dell'infermeria dove viene ricoverato: vicino a lui altri bambini, molti dei quali finiranno la loro vita sacrificati agli esperimenti del dottor Mengele che il protagonista conosce e a cui sfugge per caso.
Oleg Mandić e altri come lui vengono salvati dall'Armata rossa che arriva ad Auschwitz e il 2 marzo 1945, insieme ai soldati russi, 'chiude' i cancelli del lager.
"Io ho sofferto e sono stato liberato, ma nella mia libertà si celava una pena destinata a non finire. Da Auschwitz, - racconta Oleg - in verità, non è mai uscito nessuno".
La precaria normalità ritrovata facendo da adulto "il pendolare internazionale, lavoravo a Milano per una casa editrice jugoslava, e la mia casa era a Zagabria" è scandita dall'impegno di testimone dell'orrore di cui Oleg in un primo momento non si sente all'altezza. Quando pensava di portare avanti solo il compito di assistere sua moglie anziana e malata, gli arriva un biglietto che fa riferimento al numero tatuato sul braccio che avevano i prigionieri, in questo caso non il suo ma del suo piccolo amico Tolja: dal passato qualcuno lo chiama, ha bisogno di lui e gli dà appuntamento proprio ad Auschwitz sotto una betulla dove erano soliti ritrovarsi. E, a sorpresa, la storia di Oleg si intreccia con quella di un'altra guerra, quella combattuta in Ucraina che non risparmia vittime innocenti. Se Auschwitz è il male assoluto, tuttavia confessa il protagonista: "mi inquieta molto che la storia in fondo sia servita a poco. Le guerre, i genocidi, continuano tutti i giorni. È necessario però che ognuno faccia la sua parte e i sopravvissuti come me non smettano di parlarne: la mia è una missione, una guerra contro l'odio e l'indifferenza". Classe 1933, nato a Sušac, attuale Croazia, Mandić è stato avvocato e giornalista, e negli ultimi vent'anni ha promulgato nelle scuole e nella società civile in Europa la propria esperienza nel campo di sterminio e si è battuto per la salvaguardia di questa memoria. Per questa attività gli sono state attribuite numerose onorificenze in Italia, in Croazia e in Polonia.
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