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Temi caldi
(di Paolo Petroni)
ANDREA BAJANI, ''L'ANNIVERSARIO''
(FELTRINELLI, pp. 128 - 16,00 euro) - In macchina l'io narrante
porta al nido il figlio: ''guidando lo guardo dal
retrovisore...ogni tanto sul suo viso vedo il viso di mia madre,
è quello il posto dove la incontro da due anni a questa parte'',
concludendo ''E non fa bene. E non fa male'', forse anche perché
a monte di questa frase finale c'è tutto un libro di ricordi in
cui fa i conti con la realtà che è stata.
Un romanzo dice, perché costruito in forma narrativa, ma
soprattutto perché i fatti e i sentimenti troveranno così un
loro possibilità di approccio creativo in cui il vero, quello
che più potrebbe scottare, trova un modo di rivelarsi, anche
imprevisto: ''questo accedere attraverso l'invenzione, a ciò che
il ricordo non possiede, è precisamente la forza brutale del
romanzo'', si annota a un certo punto. Perché ''Se non sei la
persona libera che vuoi essere - come dice la citazione in
esergo di Anne Carson - , devi trovare un posto dove dire la
verità al riguardo. Dove dire come stanno le cose per te''.
Per te che tua madre, i tuoi genitori li hai visti e sentiti
dieci anni prima l'ultima volta: ''da allora ho cambiato numero
di telefono, casa, continente, ho messo un oceano di mezzo. Sono
stati i migliori anni della mia vita''.
Una madre timida, pronta sempre a tirarsi indietro, in cui il
degradarsi era legato alla suo distrarsi, figura che nel ricordo
non riesce a mettere mai a fuoco del tutto, visto che ''la
porzione di mondo che occupava era così trascurabile da non
chiedere udienza'' (tranne alcuni giorni che passò in ospedale o
il breve periodo in cui lavorò alla cassa di un supermercato).
Eppure, proprio per la sua assenza, accanto a un padre che si
''era messo al centro della scena'', ingombrante, prepotente,
questa acquista sempre più importanza e c'è quasi un implicito
rispecchiarsi nella sua fuga, nell'evitare lo scontro, pur nella
forza di volontà che questo ha comportato e nella forza di
volontà e necessità ora di riandarlo a vivere e confrontarcisi.
E questo racconto appare allora come un seguito, forse una
conseguenza del bel romanzo memoire precedente di Bajani, ''Il
libro delle case''.
Perché i ricordi, le testimonianze, anche quando riguardano se
stessi, sono sempre una ricostruzione legata a interferenze e
accidenti casuali. Per esempio la madre mite e il padre incapace
di controllarsi sono figure nate da una notte che ha dato
origine all'idea, alla ''allucinazione'' di un organismo
familiare fondato sulla violenza espressa con le mani, tra
sangue, polizia e mobili rotti, è giustificato la fuga, il
chiudersi la porta di casa alle spalle definitivamente. Eppure
ora, cercando i far mente locale, ecco che gli episodi violenti
diventano in realtà molto pochi e solo quell'uno ai danni della
madre, mentre stanno sulle, dita di una mano quelli a danno
dell'io narrante. E se ''il senso di minaccia era la costante
della nostra vita quotidiana'', accanto ci sono anche tanti
ricordi belli, con ''momenti più o meno memorabili, di vita
ordinaria, che per molti anni furono la maggior parte''.
La forza e l'emozione, la qualità di queste pagine è in questo
difficile equilibrio, nel cerca di andare a indagare dietro quel
che per primo occupa la mente, che comunque ha inciso il tuo
vissuto, e riuscire a farlo alla distanza senza infingimenti,
senza che il dolore abbia il sopravvento e prevalga invece la
misura di un confronto.
Si pone allora una domanda ''Si possono abbandonare i propri
genitori?'', In realtà è qualcosa che non si riesce nemmeno a
pensare chiaramente, non c'è risposta affermativa ''Si può solo
fare. E io lo feci'' senza rifletterci sopra perché la ragione,
impaurita, altrimenti arretrerebbe. Persino ora,
all'anniversario dei dieci anni dal suo essersene andato, è
possibile parlarne (e renderla esemplare) perché si è maturato
il tono giusto, che si traduce in una scrittura controllata e
chiara, implacabile ma sempre misurata, vero, necessario tramite
tra la vita e il cercare di raccontarsela, di riportarla a galla
passato il traguardo dei quarant'anni in cui, naturalmente, ha
sempre lavorato dentro.
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