(di Fausto Gasparroni)
Mercoledì 2 aprile saranno vent'anni
dalla morte di Giovanni Paolo II, il Papa diventato santo che
mutò il corso della storia. E a ridosso della ricorrenza,
diverse sono le pubblicazioni che commemorano la figura e la
vita di questo "gigante" della Chiesa. Al di là delle analisi e
delle rievocazioni, comunque, una in particolare, 'Karol. Il
Papa che ha cambiato la storia" (Ed. Il pozzo di Giacobbe, pp.
156, 17.00 euro), del decano dei vaticanisti Gian Franco
Svidercoschi, ex vice direttore dell'Osservatore Romano, offre
anche dettagli e risvolti rimasti tuttora inediti dell'esistenza
di Wojtyla.
Nello specifico, tra i capitoli in cui si parla dell'epoca
del nazismo e del secondo conflitto mondiale, l'autore racconta
un episodio pressoché sconosciuto, di quando nel 1945, da
giovane seminarista, Karol salvò un'adolescente ebrea. Vicenda
che, come molto altro nella vita del Papa polacco, nella
temperie attuale assume sicuramente un significato ancora molto
rilevante.
Allora l'Armata Rossa aveva sferrato da Est l'attacco
decisivo. Il 17 gennaio aveva conquistato Varsavia e quasi
contemporaneamente le truppe sovietiche erano entrate a
Cracovia. E presto la città si sarebbe riempita di profughi,
arrivati da città e paesi distrutti o usciti dai lager. Karol in
quei giorni si dava da fare con gli altri seminaristi per
riparare i danni subiti dall'arcivescovado, e definito il lavoro
aveva chiesto di recarsi a Czestochowa, per il bisogno di
pregare la Madonna Nera e di rigenerarsi. Al ritorno, al cambio
del treno nella stazione intermedia di Jedrzejow, vide per
strada una scena straziante: una ragazza con l'uniforme a righe
dei lager nazisti, stesa per terra, incapace di muoversi.
"Ho fame", gli disse con un filo di voce. Karol le trovò del
tè caldo, pane e formaggio, che la ragazza divorò furiosamente.
Si chiamava Edith. "Edith e poi?", chiese Wojtyla. "Edith
Zierer", rispose lei, con gli occhi che si riempivano di
lacrime: "E' da tanto tempo che nessuno mi chiamava per nome,
con il mio nome. Ormai ero solo un numero". Karol, come un po'
tutti i polacchi, non sapeva ancora nulla dei campi di sterminio
e delle camere a gas. Edith aveva 13 anni, era ebrea.
La sua famiglia aveva girovagato a lungo per la Polonia per
sfuggire alle retate naziste. Poi erano stati arrestati e
rinchiusi in un ghetto. Avviati alla deportazione verso il lager
di Plaszow, nella confusione al momento della partenza i
genitori e la sorella erano stati messi su un treno, Edith su un
altro. Quindi era stata trasferita nel campo di Czestochowa,
dove, conoscendo il tedesco, l'avevano fatta lavorare nella
produzione di munizione. E per questo era sopravvissuta.
Finché erano arrivati i russi, i "liberatori", di cui però
Edith non si fidava, avendo sentito che portavano gli ebrei in
Siberia. E poi voleva ritrovare i suoi, senza sapere che i
genitori erano finiti nelle camere a gas a Dachau, la sorella ad
Auschwitz. Scappata su un treno che trasportava carbone,
affamata, infreddolita, infestata dai pidocchi, si era buttata
giù alla fermata a Jedrzejow, dove poi l'aveva trovata Wojtyla,
l'unico a fermarsi, a soccorrerla. Karol la prese in braccio e
la portò ad un'altra stazione, dove passavano i treni per
Cracovia. Su uno di questi Edith incontrò altri ebrei, anch'essi
provenienti da lager nazisti. Visto che tremava dal freddo,
Karol si tolse il mantello nero e glielo mise sulle spalle, ma
poi ritenendolo un prete già ordinato ("Guarda che quello ti fa
rinchiudere in un monastero") la ragazza cominciò a diffidare
anche di lui, che pure l'aveva salvata.
A Cracovia scese prima di lui e si nascose dietro dei
serbatoi di latte. "Edyta... Edyta", la chiamò Karol in polacco.
E a lei quel suono sembrò così dolce che la convinse a uscir
fuori, senza più paure. Quell'uomo non poteva volerle fare del
male. E infatti, giunti a fatica nel centro della città, la
affidò a un'organizzazione appena nata che si occupava dei
fuoriusciti dai campi di sterminio, in particolare gli ebrei, e
che subito l'avrebbe ospitata.
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